Inviato da Maria il 11 Ott 2013 in blog, genius loci, pensieri come stoloni | 6 commenti
sono uscita di notte a camminare nel giardino. vorrei perdermi nel buio e nel silenzio. vorrei avere artigli e denti aguzzi, una pelliccia per proteggermi da questo freddo che non mi lascia mai e un buco nel terreno dove nessuno possa trovarmi.
vorrei essere un animale della notte, andare a caccia perchè ho fame, nascondermi perchè ho paura, cercare nel buio l’odore di un altro animale uguale a me.
invece mi tocca star qui a comportarmi da essere umano.
(il quadro è :giardino di notte di Antonio Possenti)
C’è un limite al dolore
in quel limite un caro conforto
un’improvvisa rinunzia al dolore.
Il pianista cerca un fiore nel buio
e lo trova, un fiore che non si vede
e ne canta la certezza.
Il gioco è questo: cercare nel buio
qualcosa che non c’è, e trovarlo.
Ennio Flaiano
il dolore, fra l’altro, rende ambiguo il rapporto col buio,no?incontrarti ogni tanto qui è davvero un piccolo momento di trascurabile felicità.
(Momenti di trascurabile felicità)
La tua vita è concepita in questo modo: fai qualsiasi cosa per cui non bisogna fare la fila. Non fai qualsiasi cosa per cui bisogna fare la fila. Non vai in banca o alla posta, ringrazi il genere umano che ha inventato quel modulo che si chiama RID e che ti permette di far pagare tutto dalla tua banca elettronica. Non vai mai a vedere le mostre alle Scuderie del Quirinale, perché alle Scuderie del Quirinale ci sono sempre le file, e hai pure smesso di chiederti perché. Non vai fuori nei weekend, non vai ai concerti perché alla prevendita c’è la fila fin dal mattino. O meglio, tutte queste cose potresti anche farle se qualcun altro si prendesse l’impegno di fare le file al posto tuo. Altrimenti, lasci perdere. E non fa niente.
Se al supermercato arrivi alla cassa e c’è la fila, aspetti in modo furtivo che nessuno ti guardi e abbandoni il tuo carrello li e scappi via – avendo l’accortezza di tirare fuori il latte e qualsiasi altra cosa hai prelevato dal banco frigo e di abbandonarla tra le bibite energetiche dell’ultimo banco frigo, quello più vicino all’uscita. I commessi si incazzeranno, ma almeno hai salvaguardato l’integrità del prodotto. Ti fermi ogni volta a una certa distanza, osservi e studi la fila, come se volessi valutare se è troppo lunga o dura poco, e qualsiasi fila ti sembra alla fine sempre troppo lunga. Ti giri verso chi sta con te e dici, sempre: c’è la fila. E te ne vai.
Se vai in giro con lo scooter hai un obiettivo preciso e sacrosanto: quando il semaforo è rosso, vuoi stare davanti a tutti. Non t’importa se la strada è congestionata dal traffico, se rischi di colpire uno specchietto retrovisore o di segnare per sempre con una striscia colorata una macchina. E non t’importa se ti guardano male, se devono fare una piccola retromarcia per farti passare o stare in tensione mentre avanzi piano tra due auto vicinissime e sei sicuro che ce la puoi fare. Non t’importa. Il tuo unico obiettivo è arrivare davanti a tutti, in prima fila, accanto ad altri scooter prepotenti e decisi come il tuo, orgogliosi e presuntuosi come il tuo – in prima fila, quasi sulle strisce pedonali, davanti a tutti. A rischio di non vedere più il semaforo, quando scatta il verde. Tanto suoneranno il clacson, tutti, e tu partirai. Per primo, o tra i primi. Davanti a te solo moto come la tua. Le auto, tutte dietro.
Quando ti guardano male, gli automobilisti, ricambi lo sguardo tenendolo gelido, sicuro. E poi fai segno di abbassare il vetro del finestrino, con gentilezza.
Quando lo fanno, dici: se volevo fare la fila, mi compravo la macchina.
Di solito capiscono cosa vuoi dire. Per quelli che non capiscono, provi tenerezza. Allora avresti voglia di seguire il percorso che fanno ogni giorno, studiarlo, e poi aspettare una giornata di pioggia. Quando arriva, sotto la pioggia li seguiresti e al primo semaforo rosso li affiancheresti. Non chiedi di abbassare il vetro, non ce n’è bisogno; basta semplicemente che ti guardino. Loro beati nella macchina chiusa, al riparo; tu con gli occhi strizzati e i muscoli rattrappiti che sopporti la pioggia. Hai voglia che siano contenti, hai voglia che pensino: cosi impari.
Non porti tua figlia allo zoo anche se si dispera e urla piangendo. Semplicemente le indichi la fila all’ingresso e dici: c’è la fila. Lei si dispera ma in cuor suo sa che non otterrà nulla, anche lei ha imparato ormai che le file non si possono fare. Forse si chiederà perché altri le fanno, forse invidierà i figli degli altri padri, vorrebbe essere uno di loro, intuirà che questo è il destino, nascere nella casa di un padre che le file le fa o nascere nella casa di un padre che le file non le fa. Ma non per questo otterrà che tu faccia la fila. Nella sua famiglia la fila non si fa, e quindi sta imparando a guardarla da lontano e a pensare a una scelta alternativa.
Poi, arriva questa donna, che a te sembra una ragazza, e già questo non va bene. Nessuno più dovrebbe sembrarti una ragazza, soltanto le ragazze. Arriva la ragazza e tu capisci che le tue certezze vacillano, e non sei contento. Ma non ci puoi fare niente. Sai che sentirà freddo la sera sullo scooter, che vuole andare al mare la domenica, che ti chiederà di andare a fare la spesa. Sai che ti dirà che la fila scorre, dirà sempre che anche se è lunga, scorre; che non perderete tempo, che devi essere paziente, che devi fidarti di lei, che sei insofferente, che devi prendere la vita con più leggerezza. Che se vi mettete in fila, intanto parlate e non ve ne accorgete. Lo capisci che ha tutta l’intenzione di affidarsi a te. Tutte cose che nella sostanza vogliono dire che devi fare le file. Lo capisci che forse lei, inconsciamente, non vuole fare le file ma vuole che le faccia tu al posto suo. E capisci che da qualche parte della tua vita interiore, arriva il segnale che potresti cedere. Che potresti dire: e vabbé proviamoci. Che potresti allora cominciare a fare le file perché scorrono, a prendere la macchina perché fa freddo. Potresti perfino fare la spesa al supermercato e prendere il numeretto al banco dei salumi e non buttarlo via perché è il numero 96 e stanno servendo il 63, ma aspettare, occupare il tempo facendo qualcos’altro. O non facendo nient’altro, tenendo la testa alta per guardare lo scorrere dei numeri sul display, calcolandone la velocità e misurando il tempo che ti rimane se la velocità media è quella.
Potrebbe costringerti a pensare, un giorno, quando valuti se la fila è troppo lunga o dura poco, che dura poco. E che puoi farla. Potrebbe costringerti senza troppo sforzo, perché è più forte di te. Potrebbe perfino esserci nella vostra vita una scena in cui voi due siete in macchina in fila al semaforo e una moto sta cercando di passare tra la vostra macchina e un’altra, e tu sei sicuro che striscerà la carrozzeria della tua macchina solo per arrivare li davanti a tutti. E se tu guarderai il motociclista nel modo in cui lo guarderai, lui potrebbe anche farti segno di abbassare il vetro e a quel punto saprai cosa vorrà dirti.
E in quel momento tu vedrai che tra il semaforo rosso, la striscia – mettiamo – rossa sulla tua carrozzeria e il vestito – mettiamo – rosso della ragazza, ci sarà una corrispondenza eccessiva, e le corrispondenze eccessive equivalgono a un destino, al quale ti sembrerà inutile sfuggire. Se tua figlia ha avuto il destino di un padre che non fa la fila, tu avrai il destino di una compagna che ti chiederà di fare la fila. E tutto sarà di nuovo bilanciato. Perfetto. Del resto, altrimenti perché la donna sarebbe apparsa un giorno lì per te; perché ti sarebbe sembrata una ragazza; è cosi bella che non devi fare niente per innamorarti, sei già innamorato, anzi non c’è bisogno che ti innamori, sei già oltre quel momento. Sei già a casa, se vuoi. Più precisamente, se lei vuole.
Allora lasci che il destino, se è il destino, ti prenda. Vai verso la ragazza. Ma la ragazza è bella, cosi bella, che non ci vai solo tu. Già altri, mentre la guardavi, sono andati. Hanno perso meno tempo con le corrispondenze eccessive e le ipotesi ossessive. Insomma, non è che tecnicamente si chiama così, però per te quella è una fila. Nella sostanza. E resta soltanto da capire se è troppo lunga. O se scorre.
Francesco Piccolo
Sei una vigliacca.
ad un commento così, DEVI rispondere! Se no, che blog è?!?
hai ragione ,caro, rispondo, se no che blog è…ma già, che blog è? sarà stato il destino a farmi blogger-attempata.
infatti volevo dire certe cose, ma poi me ne escono altre, proprio come quando volevi che la tua vita andasse in un modo, e ne eri proprio convinta, e un evento piccolissimo, il volteggiare di una foglia che cade, un fiore guardato e non raccolto, hanno fatto girare il vento.
…e comunque, francesco piccolo mi piace parecchio.
però resta la fatica di essere esseri umani.
eppoi, proprio a me che ho un “capitolo” che si chiama piccoli momenti di trascurabile felicità?